La Corte di Giustizia dell’Unione Europea – CGUE, con la sentenza del 28 gennaio 2020 (C-122/18), ha condannato l’Italia per i ritardi nel pagamento dei debiti commerciali verso le imprese.
In particolare, la CGUE ha rilevato la violazione da parte dello Stato Italiano dei termini di pagamento stabiliti all’articolo 4, paragrafi 3 e 4, della Direttiva 2011/7/UE adottata il 16 febbraio 2011 dal Parlamento europeo e dal Consiglio, relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali.
Segnatamente, ai sensi dell’articolo 4 (rubricato “Transazioni fra imprese e pubbliche amministrazioni”), paragrafo 3, lettera a) di tale Direttiva, gli Stati membri sono tenuti ad assicurare che, nelle transazioni commerciali in cui il debitore è una pubblica amministrazione, il periodo di pagamento non superi i 30 giorni di calendario a decorrere dalle circostanze di fatto ivi elencate. Quanto all’articolo 4, paragrafo 4, della suddetta direttiva, esso accorda agli Stati membri la possibilità di prorogare tale termine fino ad un massimo di 60 giorni di calendario per le amministrazioni e gli enti pubblici ivi contemplati.
Possibilità, questa, che viene consentita esclusivamente in due casi:
a) amministrazione pubblica che svolga attività economiche di natura industriale o commerciale offrendo merci o servizi sul mercato e che sia soggetta, come impresa pubblica, ai requisiti di trasparenza di cui alla direttiva 2006/111/CE della Commissione, del 16 novembre 2006, relativa alla trasparenza delle relazioni finanziarie tra gli Stati membri e le loro imprese pubbliche e alla trasparenza finanziaria all’interno di talune imprese ;
b) enti pubblici che forniscono assistenza sanitaria e che siano stati debitamente riconosciuti a tal fine.
La questione tra origine da una serie di denunce presentate da rappresentanti di operatori economici nazionali, tra cui in particolar modo ANCE, rivolte alla Commissione europea, con cui era stata censurata la prassi delle amministrazioni nazionali di provvedere al saldo delle proprie fatture con tempistiche ben superiori ai suindicati termini.
A seguito di ciò, la Commissione, con nota del 19 giugno 2014, ha messo in mora l’Italia, contestandole l’inadempimento degli obblighi su di essa gravanti ai sensi dell’art. 4 della Direttiva 2011/7.
Successivamente, con nota del 12 novembre 2014, la Commissione ha richiesto allo Stato l’invio di relazioni bimestrali inerenti alla durata effettiva dei tempi di pagamento delle p.a. e, avendo rilevato la non conformità rispetto alle disposizioni contenute nell’art. 4 della citata direttiva, dopo aver emesso in data 16 febbraio 2017 un parere motivato (ai sensi dell’art. 258 TFUE) con cui si invitava l’Italia a conformarsi agli obblighi comunitari, ha proposto ricorso alla Corte di Giustizia, ai sensi dell’art. 258 TFUE.
A propria difesa, l’Italia ha sostenuto che la direttiva 2011/7 imponesse unicamente agli Stati membri di garantire, nella loro normativa di recepimento e nei contratti relativi a transazioni commerciali in cui il debitore è una pubblica amministrazione, termini massimi di pagamento conformi alla direttiva, nonché di prevedere il diritto dei creditori, in caso di mancato rispetto di tali termini, a interessi di mora e al risarcimento dei costi di recupero. La normativa comunitaria non avrebbe imposto, invece, agli Stati membri di garantire l’effettiva osservanza, in qualsiasi circostanza, di tali termini da parte delle pubbliche amministrazioni nazionali.
Ciò premesso, la Corte (riunita in Grande Sezione), rigettando le argomentazioni difensive italiane, ha affermato che l’art. 4, paragrafi 3 e 4 della direttiva 2011/7 debba essere interpretato nel senso che impone agli Stati membri di assicurare il rispetto effettivo, da parte delle p.a. nazionali, dei termini di pagamento da esso previsti.
In particolare, a differenza di quanto sostenuto dall’Italia, è stato rilevato che l’obbligo per le p.a. di versare gli interessi moratori in conseguenza dello spirare del termine per i pagamenti (previsto al paragrafo 1 del medesimo art. 4) si pone come complementare e non come alternativo rispetto all’obbligo di rispettare i termini di 30 o 60 giorni per l’adempimento delle obbligazioni.
Inoltre, mentre l’art. 3 (relativo alle “Transazioni fra imprese”) al paragrafo 3 si limita a prevedere il diritto del creditore a interessi in caso di superamento dei suddetti termini, l’art. 4, paragrafo 3, proprio in virtù della considerazione che le p.a. godono di flussi di entrate più certi, prevedibili e continui rispetto alle imprese private, enuncia un obbligo preciso di rispettare i termini ivi indicati.
Infatti, il venire meno a tale dovere, ha osservato la Corte, può determinare costi ingiustificati per le stesse imprese, aggravandone i problemi di liquidità e rendendone ingiustamente più complessa la gestione finanziaria.
In secondo luogo, la CGUE ha statuito che la violazione dei termini individuati dai paragrafi 3 e 4 da parte delle amministrazioni nazionali costituisce inadempimento agli obblighi comunitari, senza che rilevi la natura autoritativa o paritetica del rapporto intercorrente con l’impresa creditrice.
Sul punto, ha osservato la Corte che l’argomento della difesa italiana, secondo cui le pubbliche amministrazioni non possono far sorgere la responsabilità dello Stato membro cui appartengono quando agiscono nell’ambito di una transazione commerciale, al di fuori delle loro prerogative dei pubblici poteri, finirebbe, se accolto, con il privare di effetto utile la direttiva 2011/7 (ed in particolare il suo articolo 4, paragrafi 3 e 4, che fa gravare proprio sugli Stati membri l’obbligo di assicurare l’effettivo rispetto dei termini di pagamento da esso previsti nelle transazioni commerciali in cui il debitore è una pubblica amministrazione).
Infine, dopo aver rilevato, dall’analisi dei dati forniti sia dalla Commissione che dallo Stato italiano, che il tempo medio entro cui le p.a. nazionali complessivamente hanno effettuato i pagamenti a titoli di corrispettivo delle loro transazioni commerciali supera i termini previsti dai paragrafi 3 e 4 del citato art. 4 (30 o 60 giorni), la CGUE ha ribadito che, da giurisprudenza costante, il ricorso avverso l’inadempimento agli obblighi di matrice comunitaria ha carattere oggettivo e prescinde dalla portata o dalla frequenza delle situazioni censurate.
Di talché, avendo accertato che l’Italia è venuta meno agli obblighi su essa incombenti in forza della direttiva 2011/7, l’ha condannata ad uniformarsi ai suddetti obblighi, nonché a rifondere le spese di giudizio.
Tanto premesso, la Commissione europea valuterà ora se l’Italia riuscirà ad adeguarsi entro poco tempo o se dovrà invece denunciarla nuovamente alla Corte UE, chiedendo l’imposizione di una multa. Ferma restando la possibilità di richiedere l’erogazione di una sanzione economica (forfettaria o giornaliera) fino a quando la situazione non verrà risolta.
In ragione di ciò, ANCE tornerà a chiedere al Governo e al Parlamento, con ancora maggiore forza, l’adozione di misure concrete – tra cui anche la modifica dell’art. 113-bis del Codice per un completo allineamento dell’articolato alle previsioni contenute nella direttiva UE 2011/7 – al fine di ridurre effettivamente i tempi di pagamento dei saldi commerciali in favore delle imprese, nonché volte ad estinguere celermente i debiti ancora pendenti.